Abstract
Il racconto biblico di Caino e Abele non è semplicemente la narrazione di un fatto esemplare, né costituisce un “caso clinico” da collocare in una particolar categoria nosografica. È una allegoria che deriva dal mito in ragione della traccia durevole che ha impresso nello psichismo umano. Di qui la legittimità dell’intersezione tra teologia, antropologia e psicanalisi sottesa all’analisi del rapporto tra rivalità, invidia e gelosia, come emozioni primordiali, sulle quali è chiamato a esercitarsi il “lavoro” psichico necessario per passare dall’informe caos pulsionale all’educazione degli affetti e al pensiero. In questo senso, tanto nella Bibbia quanto nei saggi metapsicologici di Freud e della sua scuola, il primo omicidio dell’umanità si identifica con il tempo fondatore della civiltà. Del resto, le innumerevoli glosse che il racconto del fratricidio ha suscitato non ha esaurito la sua sconcertante potenza, né ha scalfito la sua modernità: che si tratti di individui, di gruppi o di popoli, ogni volta che l’uomo si accinge ad annientare il suo simile, la rappresentazione del fratricidio originario riemerge immediatamente e Caino è chiamato a rispondere del suo crimine davanti al tribunale divino, come nella Bibbia, o, in absentia, a quello della comunità degli uomini e della coscienza morale.